Yoga


Con il termine Yoga, la cui radice yuj- significa "unire",

 si indicano pratiche ascetiche e meditative che hanno come unico scopo la relizzazione del Se' spirituale. 

Non specifico di alcuna particolare tradizione o religione indù

lo Yoga è stato principalmente inteso come mezzo di realizzazione e salvezza spirituale,

 quindi variamente interpretato e disciplinato a seconda della scuola.

Lo Yoga rappresenta inoltre un insieme di tecniche anche meditative,

 aventi come scopo "l'unione" con la Realtà ultima e tesa ad "aggiogare", "controllare", "governare" i "sensi" (indriya)

 e i vissuti da parte della coscienza: 

In senso più ampio è una via di realizzazione spirituale che si fonda su una sua propria filosofia,

 un percorso che diviene via via sempre più totalizzante.


Le vie dello Yoga nella Bhagavadgītā

I 18 canti estratti dal Bhīṣma Parva, sesto libro del vasto poema epico Mahābhārata, noti come "Il canto del Divino", costituiscono un poemetto a parte per la decisiva importanza storica e dottrinale che essi rivestiranno nell'Induismo ortodosso.[27] Di datazione incerta, ma comunque non successiva al III-II secolo a.e.v. nella loro stesura finale, salvo ritocchi posteriori, la Bhagavadgītā è incentrata sul dialogo fra il principe Arjuna e il dio Kṛṣṇa, ottavo avatāra di Visnù. Il confronto, sempre in sospeso fra toni ieratici e punte di alto lirismo, è ambientato in un campo di guerra, là dove Arjuna si ritrova a dover fronteggiare in battaglia i suoi stessi familiari. L'angoscia del combattimento e il dilemma morale lo assalgono costringendolo a fermarsi.[28] È qui che Kṛṣṇa, sul carro di Arjuna in veste di auriga, risponde ai suoi dubbi, gli espone le vie della realizzazione, e a lui si manifesta come Dio.[29]

Nella Gītā il termine yoga compare spesso, ma quasi sempre non inteso nel senso di tecnica psicofisica o visione filosofico-religiosa compiuta come in seguito sarà,[30] bensì come condotta di vita, via o percorso verso il divino e quindi verso la liberazione. La molteplicità di questi cammini che Kṛṣṇa presenta ad Arjuna costituisce l'insieme delle vie dello Yoga così come in quest'opera esposte. Fra queste rivestono maggior importanza:[31] il Karma Yoga, la via dell'azione sacralizzata; il Jñāna Yoga, la via della conoscenza spirituale; il Bhakti Yoga, la via dell'abbandono devozionale a Dio; il Dhyāna Yoga, la via della meditazione.[29] Al di là delle particolarità che contraddistinguono i singoli percorsi, lo Yoga esposto in quest'opera è chiaramente teistico, e si presenta come il risultato di una vasto intento sintetico, nel quale ogni via di salvezza è considerata efficace se percorsa nel principio validante della fede.[32]


Karma Yoga

Il termine karma è generalmente tradotto con "azione",[33] e nelle tradizioni dell'induismo è connesso alla dottrina del ciclo delle rinascite, il saṃsāra, tramite quella legge nota appunto come "legge del karma", in base alla quale ogni azione dell'individuo senziente può essere causa di conseguenze che vincolano il suo corpo trasmigrante a tornare in vita dopo la morte del corpo fisico. Si è qui di fronte a una teoria fondamentale in tutte le tradizioni religiose non solo dell'induismo, ma anche del buddhismo, del giainismo e del sikhismo. La liberazione, il mokṣa, da questo ciclo delle reincarnazioni è il fine ultimo di queste tradizioni, perché tornare in vita non è che ritornare nelle sofferenze della vita. Il problema che la Bhagavadgītā si trova a dover affrontare è in fondo il dilemma fondamentale di ogni essere umano: come conciliare il proprio agire quotidiano con la legge morale. E Arjuna si trova in una situazione limite, ben più ardua di quella dell'individuo comune: è a capo di un esercito e dall'altra parte egli vede schierati i suoi stessi consanguinei.

Kṛṣṇa espone ad Arjuna la dottrina del Karma Yoga, che a un primo livello di comprensione è letta come la via dell'azione disinteressata, il distaccamento cioè dai frutti dell'azione stessa[34] e l'adesione al proprio dovere sociale (svadharma) in quanto tale e non come strumento per raggiungere, o evitare, questo o quell'obiettivo, o ostacolo.[35] Più in profondità il Karma Yoga pospone la via dell'ascetismo alla via dell'impegno sociale, reinterpretando quest'ultimo in un'ottica sacralizzata:

«Ma colui che, padroneggiando i sensi mediante la mente, intraprende con distacco la pratica dello Yoga dell'azione, mettendo in opera le proprie facoltà attive, quegli eccelle [fra gli asceti]. Quanto a te, compi le azioni prescritte, perché l'azione è superiore all'inazione e la tua vita corporale non potrebbe essere mantenuta senza che tu agisca. A eccezione delle opere compiute per uno scopo sacrificale, l'azione è ciò che in questo mondo incatena.»

(Bhagavadgītā, op. cit, III.7-9)

L'agire disinteressatamente, in accordo col proprio ruolo sociale diventa quindi atto sacrificale col quale l'uomo rende a Dio ciò che Dio ha creato:[36]

«Così gira la ruota [cosmica]. Colui che, quaggiù, non la fa girare a sua volta, conduce una vita empia e si compiace delle fruizioni sensibili, scorre invano la sua vita, o figlio di Pṛthā.»

(Bhagavadgītā, op. cit, III.16)

Il «trionfo» della Bhagavadgītā, usando un'espressione di Mircea Eliade, è in questo suo dare la possibilità di rendere sacra ogni azione profana vivendola come atto rituale, gesto sacro offerto a Dio, foss'anche un atto "immorale" come quello di Arjuna. Dissolvendo così nel sacrificio[37] il frutto dell'azione, l'individuo non "genera nuovo karma", si svincola dal ciclo delle rinascite e può finalmente aspirare alla liberazione.[38]


Bhakti Yoga

La bhakti è la devozione verso una divinità personale, il Signore (Bhagavān), o anche verso il proprio maestro spirituale, attualmente espressa in varie tradizioni religiose dell'induismo come adorazione, trasporto emotivo intenso e resa totale.[39] La bhakti così intesa è propria dei cosiddetti "movimenti devozionali", affermatisi verso il VII secolo nell'India del Sud e poi estesisi altrove, ma già presenti nel periodo in cui la Gītā veniva composta.[40] Nella Gītā compare inoltre per la prima volta la concezione che il Signore possa ricambiare l'affetto del devoto,[31] essergli amico e anche di più.[41]

Il Bhakti Yoga è dunque la via della devozione, la via che scegliendo l'adorazione e l'abbandono nel Signore, conduce così alla liberazione. E, cosa notevole, la Gīta estende ora questa possibilità agli individui delle caste basse e alle donne, tradizionalmente esclusi dal mondo brahmanico:

«Coloro che hanno preso in me il loro rifugio, figlio di Pṛthā, anche se avessero una cattiva nascita, se fossero donne, artigiani o anche servitori, raggiungono il fine supremo.»

(Bhagavadgītā, op. cit, IX.32)


Jñāna Yoga

Jñāna è la conoscenza metafisica,[42] la conoscenza dell'Assoluto, del Brahman cioè[43]:

«Mediante questa [conoscenza] tu vedrai tutti gli esseri, tutti, senza eccezione, nel Sé, cioè in me.»

(Bhagavadgītā, op. cit, IV.35)

Nel quarto canto della Gītā la via della conoscenza è intesa come una forma di sacrificio (IV.32), quella più alta fra le altre forme di sacrificio (IV.33), identificata con la conoscenza dei Veda (IV.34).


Dhyāna Yoga

Il sostantivo neutro dhyāna è usualmente reso con "meditazione", "attenzione", "riflessione", "contemplazione".[44] Il sesto canto della Gītā si occupa, tra altro, dell'aspetto contemplativo dello Yoga, e più che fare riferimento al settimo stadio della suddivisione degli Yoga Sūtra, detto appunto "Dhyāna", in realtà verte sull'insieme delle ultime tre suddivisioni, il saṃyama ("dominio dello spirito").[45] I versetti dal 10 al 14 descrivono tecnicamente come il praticante deve operare, e troviamo qui abbozzati ma precisi elementi che faranno parte dello Yoga classico: osservanza della castità; una posizione stabile in cui meditare; concentrazione su un unico punto (ekāgra); animo pacificato; mente disciplinata. Questa pratica conduce all'unione fra l'essenza individuale e quella universale, donando una felicità che non è dei sensi:

«Là dove il pensiero [citta], sospeso mediante la pratica assidua dello yoga, cessa di funzionare, e là dove, percependo il Sé [ātman] nel Sé [e] mediante il Sé, si trova la [propria] soddisfazione, là dove si trova quella beatitudine infinita che percepisce l'intelletto [buddhi] ma non i sensi.»

(Bhagavadgītā, op. cit., VI.20-21)

La "sospensione del pensiero" (cittam niruddham) qui evidenziata è del tutto equivalente alla definizione che si dà negli Yoga Sūtra (citta vṛtti nirodhaḥ).


Lo Yoga classico nello Yogasūtra di Patañjali

La prima grande opera indiana che descrive e sistema le tecniche dello Yoga è lo Yoga Sūtra ("Aforismi sullo Yoga"), redatto da Patañjali, vissuto fra il II sec. a.e.v. e il V sec. e.v.[46][47], che raccoglie 196 sūtra. A lui va il merito di aver interpretato lo Yoga quale dottrina soteriologica e soprattutto filosofica da tradizione mistica che era.[48]

Lo Yogasūtra è suddiviso in quattro sezioni dette pāda, che sono: Samādhi Pāda (la "congiunzione"); Sādhana Pāda (la "realizzazione"); Vibhūti Pāda (i "poteri"); Kaivalya Pāda (la "separazione"). Nel primo pāda viene introdotto e illustrato lo Yoga come mezzo per il raggiungimento del samādhi, lo stato di beatitudine nel quale, sperimentando una differente consapevolezza delle cose, si consegue la liberazione (mokṣa) dal "ciclo delle rinascite" (il saṃsāra). Nel secondo è esposto l'Aṣṭāṅga Yoga ("Le otto membra dello Yoga", noto anche come Raja Yoga, lo "Yoga regale"). Nel terzo Patañjali prosegue descrivendo le ultime tre fasi del percorso yogico; vengono altresì esposti i "poteri sovraumani" (vibhūti) che è possibile conseguire con una pratica corretta dello yoga. Nell'ultimo pāda il filosofo dà una veste filosofica alla disciplina finora presentata rifacendosi alla dottrina del Sāṃkhya: il samādhi consente finalmente di riconoscere la "separazione" (kaivalya) fra spirito (puruṣa) e materia (prakṛti).[49][50]

Kaivalya, puruṣa e prakṛti, insieme ad altri, sono termini del pensiero del Sāṃkhya, scuola sistematizzata dal filosofo indiano Īśvarakṛṣṇa intorno al IV secolo e.v., ma di origini ben anteriori. Patañjali adotta il Sāṃkhya e su di esso fonda il suo Yoga, coniugando così due fra le tradizioni più antiche del mondo indiano, quella filosofica del Sāṃkhya e quella mistica dello Yoga. Così sintetizza il suo contributo lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade:

«Lo Yoga classico comincia dove finisce il Sāṃkhya. Patañjali fa sua quasi integralmente la dialettica Sāṃkhya, ma non crede che la conoscenza metafisica possa, da sola, portare l'uomo alla liberazione suprema.»

(Mircea Eliade; in Eliade 2010, p. 47)

Di opinione differente è il filosofo indiano Surendranath Dasgupta[51], il quale ipotizza un'origine comune per entrambi i sistemi in quello che è stato definito il "proto-Sāṃkhya"[52], il Sāṃkhya delle origini, del quale però poco o nulla si conosce non esistendo alcun testo coevo. Egli però non nega a Patañjali di aver operato una notevole sintesi delle tradizioni dello Yoga e del Sāṃkhya, sia che fossero tradizioni distinte, sia che avessero origini comuni. Di opinione simile sono anche i commentatori dell'epoca.[53]

Il Sāṃkhya postula l'esistenza di due princìpi eterni e inconciliabili: il puruṣa, il "veggente", puro spirito frammentato in infinite monadi, testimone inattivo dell'incessante evoluzione della prakṛti, il secondo principio: la "natura naturante", la materia concepita come ente da cui deriva per differenziazioni successive ogni aspetto della realtà fisica, materiale e mentale. Sebbene distinti, tra tali due princìpi si esercita normalmente un'influenza che è causa sia dell'evoluzione del cosmo sia della sofferenza umana. Da un lato abbiamo il puruṣa, che non possedendo la facoltà di agire si lascia illudere dalla prakṛti attribuendosi un dinamismo che gli è alieno; dall'altro lato c'è la prakṛti, che nel suo prodotto più evoluto, cioè il citta (la coscienza), si erge illudendosi d'essere altro dalla materia stessa.[54]

Lo stesso argomento in dettaglio: Sāṃkhya.

La confusione originata da tale ignoranza condanna il cosiddetto "io trasmigrante" a reincarnarsi dopo la morte del "corpo grossolano" che lo accoglieva: è il saṃsāra: l'evoluzione della materia prosegue e così anche la vita intesa in senso lato. E tornare a vivere è ricadere nella sofferenza.[54]

La liberazione da questo ciclo è possibile, secondo il Sāṃkhya e lo Yoga di Patañjali, soltanto riconoscendo gli aspetti autentici del puruṣa e della prakṛti e quindi il loro stato di effettiva "separazione", il kaivalya. Il soggetto che può operare tale distinzione non può certo essere il puruṣa, ma la prakṛti stessa nella sua forma più complessa, la coscienza, il citta. Il citta, l'insieme delle funzioni mentali consce e inconsce[55], deve liberarsi da tutto ciò che la oscura e la agita, da quei "movimenti" che Patañjali chiama "vortici" (vṛtti). E questo altro non è se non il fine dello Yoga:[54]

(SA)

«yogaś citta vṛtti nirodhaḥ»

(IT)

«Lo yoga è la soppressione dei movimenti della mente.»

(Yoga Sūtra, I.2; citato in Iyengar 2010, p. 65)

Resa quieta la coscienza, questa può finalmente riconoscere lo spirito quale testimone non vincolato, libero, inattivo e trascendente. Quando ogni essere senziente si sarà così liberato, la prakṛti si riassorbirà in sé stessa e tutto tornerà nello stato primordiale.[54]

Gli otto stadi del Rāja Yoga

Lo stesso argomento in dettaglio: Raja Yoga.

Uno yogin mentre pratica il dhyāna, la meditazione yogica.

«Lo yoga deve essere conosciuto attraverso lo yoga. Lo yoga è il maestro dello yoga. Il potere dello yoga si manifesta solo attraverso lo yoga.»

(Vyāsa[56], Yogabhāṣya, commento a Yoga Sūtra, III.6; citato in Iyengar 2010, p. 185)

Gli stadi in cui Patañjali suddivide il percorso yogico sono otto. I primi due, yama e niyama, rispettivamente le "astensioni" e le "osservanze", sono da intendersi come norme di carattere generale, indispensabili codici morali da adottare quotidianamente per chi voglia intraprendere il percorso (sādhana).

Tali otto stadi sono:

«Quando l'oggetto della meditazione assorbe chi medita, e appare come soggetto, si perde la consapevolezza di se stessi. È il samādhi

(Yoga Sūtra, III.3; citato in Iyengar 2010, p. 181)

Il filosofo distingue due momenti prima del compimento del percorso esposto:

Quando anche queste funzioni hanno terminato di esercitare del tutto la loro influenza, si è nel:

«È uno stato al di là dell'esperienza sensoriale del mondo, nel quale la coscienza è raccolta in sé stessa senza alcun oggetto, ossia è riflessiva, poiché è essa stessa il proprio oggetto.»

(Gavin Flood; in Flood 2006, p. 132)

Raggiunto il nirbīja samādhi l'individuo ha finalmente liberato il suo puruṣa dall'influenza della materia rendendogli la propria condizione originale; il suo corpo trasmigrante si è del pari riconosciuto per quel che è reintegrandosi nella prakṛti: è la condizione del "liberato in vita" (il jīvanmukta), una situazione paradossale. Pur vivo, egli ha abbandonato il ciclo delle rinascite (il saṃsāra); pur continuando a esistere nel tempo, egli è fuori dal tempo; pur possedendo un corpo, la propria coscienza (il citta) è ora assimilabile al puruṣa, il testimone delle evoluzioni del materiale e del mentale: egli "si vede". Soggetto e oggetto al contempo, il liberato in vita vive in uno stato di "sovracoscienza", uno stato di estrema, impassibile lucidità.[49]

Testo tratto da Wikipedia