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Il giudizio italiano sul Plan Condor: intervista ad Andrea Speranzoni
Reportage e interviste

Il giudizio italiano sul Plan Condor: intervista ad Andrea Speranzoni

Le vicende del Plan Condor iniziano a snodarsi a partire dall’altro 11 settembre, quello del 1973. Si tratta del giorno in cui il palazzo de la Moneda di Santiago del Cile viene invaso dalle forze armate del generale Augusto Pinochet Ugarte, che già da tempo organizzava il golpe camuffandosi da uomo vicino a Salvador Allende. Vicino al Presidente democraticamente eletto, nel giorno del golpe militare si trovavano gli uomini del GAP (Gruppo di Amici del Presidente), una scorta col compito di garantire la sicurezza al Allende coordinata da un giovane ventiquattrenne di origini piemontesi: Juan Montiglio Murua. Prima di essere assassinato, Montiglio fu catturato l’11 settembre e torturato per due giorni. Dopo la fucilazione di Montiglio e di altri 25 membri del GAP e consiglieri del Presidente, i militari golpisti distrussero i loro corpi mediante il lancio di bombe a mano all’interno di una fossa comune che era stata fatta scavare dalle vittime.

Questa è solo una delle storie, la prima, che segna l’inizio dell’attuazione del Plan Condor. Parliamo di un’associazione per delinquere che si estrinsecava in rapporti di collaborazione multilaterale tra le intelligence di numerosi Paesi latinoamericani, tra cu l’Uruguay, il Cile, l’Argentina, il Paraguay e la Bolivia al fine di gestire simultaneamente la repressione contro qualsiasi oppositore bollato come marxista. A tessere le fila dell’organizzazione c’era il beneplacito degli Stati Uniti, una verità storica più che giuridica e contro cui si è recentemente scagliato il presidente boliviano Evo Morales, reputando il Nord America come principale soggetto a cui imputare la responsabilità del Plan Condor. Il golpe di Pinochet fu solo il primo di una lunga serie ed ebbe ripercussioni che travalicarono i confini sudamericani e raggiunsero anche l’Europa, Italia compresa. Alcuni degli attentati al centro dell’operativo Condor raggiunsero infatti il nostro territorio come nel caso di Bernardo Leighton a Roma nel 1975. Inoltre, l’idea di compromesso storico proposta da Enrico Berlinguer prese piede in concomitanza con la morte di Allende e con la fine violenta dell’esperimento democratico cileno. Tutto questo s’inscriveva, secondo quanto sostiene Andrea Speranzoni uno degli avvocati di parte civile del processo italiano sul Plan Condor, in una strategia economica di stampo neoliberista capace di sventare il “pericolo” di forme di governo alternative, in Sud America scongiurate con i regimi militari. Negli stessi anni in Italia si verificò la cosiddetta strategia della tensione, che ebbe come finalità quella di stabilizzare il Paese entro l’orbita atlantica mediante la destabilizzazione istituzionale. Non a caso dunque il Processo Condor che si è svolto nell’aula bunker di Rebibbia a Roma assume importanza sotto molteplici aspetti. Pur essendo spogliato della sua rilevanza politica a causa della distanza temporale dai fatti, è uno dei primi processi in cui dei Giudici si pronunciano sulle caratteristiche del Plan Condor. Questo giudizio ha suscitato a partire dalla sentenza del 17 gennaio un importante dibattito in America Latina e ha restituito giustizia a molti sudamericani di origine italiana ritrovatisi coinvolti e ad oggi ancora desaparecidos. Andrea Speranzoni, che si è già occupato di alcuni casi giudiziari sui crimini nazi-fascisti in Italia, ha difeso alcune delle vittime, cercando di scindere professionalmente il lato giuridico da quello umano ma, allo stesso tempo, riconoscendosi con il dolore delle vittime. Proprio per questo, come sostiene nell’intervista, non si può essere del tutto soddisfatti della sentenza. Le assoluzioni di alcuni imputati, come ad esempio il numero due della Dina, Pedro Octavio Espinoza Bravo, sono difficilmente comprensibili in quanto la maggior parte delle condanne arriva per la parte ideativa delle operazioni repressive, lasciando quella esecutiva quasi inesplorata. Inoltre, il Processo Condor evidenzia alcuni difetti sistemici del nostro sistema giuridico come l’assenza del reato di tortura, al centro di ogni testimonianza, ma assente nelle contestazioni formulate dalla Pubblica Accusa. A questo punto non resta che aspettare la motivazione della sentenza, e attendere dalla Procura la formulazione di un buon atto di appello. Su un altro piano delle cose si pone la memoria, importante, ma questione del tutto diversa dalla parola giustizia.

Da dove è partito il Processo Condor

In termini investigativi incomincia nel ‘98-‘99 a partire da una prima querela di un parlamentare dei Verdi, Stefano Boco, che denunciò, sulla scorta dell’arresto di Pinochet a Londra, l’esistenza del fenomeno dei desaparecidos cileni di origine italiana. Si trattava dei primi quattro casi, oggetto del giudizio nel recente processo di Roma. Il primo fu quello di Omar Venturelli, militante del Movimento della Sinistra Rivoluzionaria cilena. A seguire, vennero sentite presso l’ambasciata italiana di Buenos Aires le vedove di Juan Montiglio Murua e di Juan Bosco Maino Canales. Seguì il caso dell’italocileno Jaime Donato Avendano, membro della direzione del Partito Comunista del Cile. I quattro casi cileni fanno dunque da apripista all’indagine romana. Si aggiungono poi le quasi contemporanee denunce della signora Cristina Mihura e della signora Aurora Meloni per i casi dei desaparecidos Bernardo Arnone e Daniel Banfi (il cui corpo venne ritrovato) e poi i casi uruguaiani. Nel 2007 ci fu la richiesta di custodia cautelare in carcere formulata dal PM Capaldo che riguardò 130 tra militari, vertici dei servizi segreti e della polizia cilena, argentina e uruguayana. Successivamente, a seguito della fuga dall’Uruguay di Jorge Troccoli e del suo arrivo in Italia, si aggiunse il filone di indagine su Troccoli. La richiesta di rinvio a giudizio è del 2012 e l’udienza preliminare inizia nel 2013. Qui si conclude la fase d’indagine. La fase del giudizio è iniziata sul finire del 2013 ed è arrivata fino a quest’anno.

Il nostro paese è stato quindi una sorta di precursore

Tutto parte dall’arresto di Pinochet a Londra ma in realtà il Paese che ha fornito il maggior contributo in termini di impulso è la Spagna, specialmente nella figura del giudice Baltasar Garcon. Certamente il nostro Paese, almeno in Europa, è precursore nell’aver dato il primo frutto in termini di sentenza sull’operativo Condor. In questo caso facciamo riferimento al fenomeno transnazionale che ha operato tra il ‘72-‘73 e la metà degli anni ’80 e non solo ai desaparecidos. Un processo analogo sul piano Condor è stato celebrato in Argentina, dove un giudice per la prima volta ha definito l’operativo Condor come associazione per delinquere finalizzata al sequestro qualificato di cittadini argentini e latinoamericani. Il processo italiano si distingue tuttavia da quest’ultimo perché non si è processato per associazione a delinquere ma per concorso in omicidio in relazione a un numero di casi estremamente ampio che ha riguardato imputati peruviani, boliviani, uruguayani, e cileni per operazioni bilaterali compiute in Brasile, Argentina, Uruguay e Cile. Quest’unicum è tanto una forza quanto un limite perché processare a quaranta anni di distanza su fatti complessi, operazioni di intelligence criminale soggette a deroghe amministrative e ad ovvie difficoltà di acquisizione documentale, implica l’affrontare un processo dove l’esperienza giudiziaria è molto difficile da costruire. Ora siamo a una sentenza di primo grado con 8 condanne alla pena dell’ergastolo; di queste 3 riguardano i vertici militari peruviani, 2 i vertici politico-militari boliviani, 2 militari cileni e uno il vertice politico uruguaiano. Tuttavia, ci sono anche numerose assoluzioni, la più parte delle quali riguardano i militari uruguayani imputati. Questa è la parte della decisione che colpisce di più e che con maggior forza andrà contrastata in appello.

Queste sentenze quindi evidenziano dei problemi strutturali, come l’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento

I problemi strutturali del processo sono tanti. Dovendo definire in modo categoriale le problematiche: non abbiamo processato per il reato di tortura perché non presente nel nostro ordinamento è la norma incriminatrice ma, a distanza di migliaia di chilometri e decenni, abbiamo tentato in via suppletiva una giustizia di transizione che non è propria del nostro Paese. Diviene nostra in virtù dell’applicazione dell’articolo 8 del codice penale che permette il giudizio in Italia con vittima italiana all’estero. Va da sé che la giustizia italiana non può pensare di sostituirsi a modelli di giustizia di transizione che per esempio in Cile e in Uruguay hanno seguito percorsi tormentati e problematici. Il processo di Roma si è avvalso di prove acquisite a Montevideo o a Santiago del Chile o in Perù e quindi è inevitabile che la base investigativa seguita dal magistrato italiano sia stata quella proveniente dal Paese dove i fatti si sono svolti.

Le condanne

Analizziamole per punti queste condanne, pur non avendo ancora una motivazione. La sentenza di Roma per il primo grado ha un’importanza fondamentale per il caso Montiglio e per il giudizio sul Piano Condor. Il caso Montiglio è quello che giudica 3 imputati e riesce a condannare il capitano Ahumada Valderrama come subordinato al comandante Ramirez Piñeda. Originariamente in quel capo di imputazione c’erano anche Pinochet, il generale Merino, l’ammiraglio Leigh, e il generale Victor Arellano Stark, ovvero il vertice del golpe in Cile. Condannare Valderrama significa dare fondamento di responsabilità di tutti agli assassini delle 26 persone del GAP che tutelava Allende. Questo processo non c’è mai stato in Cile né in nessun’altra parte del mondo quindi, possiamo dire, che il processo italiano è il primo al mondo per ciò che riguarda casi di omicidio di persone catturate nel corso dei fatti dell’11 settembre del ‘73 per il reato d’omicidio. È stato celebrato solo un processo precedente in Francia, nel 2010, che ha riguardato una persona sequestrata e morta assieme a Montiglio, ma non per omicidio, bensì per sequestro qualificato. E infatti quel processo, per il caso del medico Georges Klein si è concluso con delle condanne anche nei confronti di Valderrama ma al massimo di 20 anni e non a pena detentiva perpetua. Ciò ha quindi un’importanza fondamentale per la famiglia di Montiglio, per il GAP del Presidente Allende e più ampiamente perché fornisce un giudizio di responsabilità penale (quella storica c’è già) sul golpe. Esisteva ed esiste ancora a Santiago un’indagine in corso dal 1990 e all’interno di questa abbiamo il verbale del reo-confesso ed esecutore materiale dell’omicidio di Montiglio che si chiama Herrera Lopez Iván poi acquisito come fonte di prova a Roma. Questa fonte di prova, riversata nel processo italiano, proviene dalle indagini di Santiago. In Cile esiste un livello di giustizia su questi crimini molto avanzato, che è secondo solo all’Argentina e i Giudici cileni hanno pronunciato un buon numero di sentenze sui cosiddetti crimini di lesa umanità. Certamente, la vicenda dell’11 settembre non è arrivata a un giudizio. Il perché dovrebbero dirlo i politologi. Forse perché aver scardinato il progetto di Allende è un qualcosa che crea un problema politico in Cile in quanto mette in gioco ciò che ha preceduto il golpe, le relazioni con il Nord-America e la premessa politica del golpe. Esiste la difficoltà di fare i conti con l’episodio che ha cambiato il destino cileno, quello dell’America Latina e in parte anche il nostro se pensiamo a quando nasce l’idea di compromesso storico di Berlinguer.

Il secondo caso di importanza fondamentale è quello di Omar Venturelli che aveva avuto un unico processo a Roma conclusosi con un’assoluzione circa 7-8 anni fa. La condanna di Ramirez Ramirez come comandante militare dell’intera regione di Temuco colpisce verso l’alto la responsabilità perché in quel capo d’imputazione sono state assolte 4 persone, i torturatori, ma almeno a livello di sentenze Roma ha riconosciuto e ritenuto provata la presenza della carovana della morte in Cile e a Temuco. L’azione di questo gruppo criminale era finalizzata all’eliminazione degli esponenti del Mir (Movimento di sinistra rivoluzionaria). Per il Cile arrivano, e resto stupito per questo, le assoluzioni di Espinoza Bravo, il numero due della Dina cilena per i casi di Maino e Donato che io difendo (rispettivamente la sorella di Maino e il Partito Comunista Cileno). Ritengo che la prova di concorso e di sequestro in omicidio per Espinoza Bravo fosse e sia pacifica nei limiti in cui è possibile provare un concorso in omicidio in cui non esiste in nessun caso un ordine scritto di assassinare qualcuno. Per i casi in questione eravamo tuttavia riusciti a provare: il ruolo di Espinoza Bravo all’interno della DINA cilena spiegando tutti i meccanismi di funzionamento di tale struttura repressiva, il ruolo che lui aveva nello specifico nel maggio del ’76, il periodo in cui sono avvenuti gli omicidi di Maino e Donato e dell’intero comitato centrale del PCCh, che esisteva un piano di eliminazione dei vertici di questi partiti politici, che questo piano è stato eseguito e compiuto, che dal gennaio del ‘76 al dicembre del ‘77 Espinoza era capo del reparto operazioni della DINA in Cile, che il comandante del reparto delle operazioni sovrintendeva all’esecuzione della guerra politica interna con i partiti messi fuori legge dal regime, che sovrintendeva a tutti i centri clandestini di Santiago e delle altre regioni del Cile, che Maino e Donato sono finiti entrambi a Villa Grimaldi (dove Maino muore, Donato muore invece a Santiago) e che Espinoza Bravo era stato un anno e mezzo prima al vertice interno di Villa Grimaldi, dunque sapeva cos’era il centro clandestino di tortura di Villa Grimaldi e cosa lì avveniva. Quindi pur non avendo raggiunto la prova della cosiddetta “pistola fumante” nelle mani dell’imputato, abbiamo raggiunto quella di concorso nel fornire mezzi e intelligenza, strumenti per organizzare le torture, e per assassinare. Leggeremo perché lo hanno assolto.

Se devo fare una previsione, e non credo di sbagliarmi, tranne per il caso di Montiglio dove la c.d. pistola fumante c’era quindi non si poteva non condannare l’imputato (c’erano inoltre vari testimoni per tale omicidio), gli altri 7 condannati sono dei vertici politici che hanno ideato e pianificato il Plan Condor. Sono vertici più politici che esecutivi.

La struttura ideativa del Plan Condor

Nelle dinamiche di qualsiasi piano militare che nasce in un contesto politico c’è una cupola politica a cui è attribuibile in termini penali la fase ideativa dei reati (es. Videla che ha ideato l’organizzazione di divisione in aree dell’Argentina, ha incaricato i comandanti militari e ha dato input di carattere generale), mentre la fase preparatoria ed esecutiva la mettono in piedi vertici militari dotati di una propria gerarchia organizzata. In questa catena di comando ci sono figure di livello medio-alto, come per esempio Jorge Troccoli, che organizzavano i sequestri o andavano nei centri clandestini per praticare le torture e, secondo la prospettazione accusatoria (che però non ha trovato riscontro in primo grado) decidevano quando era il momento in cui il torturato non serviva più. Non è detto che dell’eliminazione si siano occupati loro in modo diretto, naturalmente. Ci sono figure come Espinoza Bravo, all’interno della DINA, che sono collocabili nella fase preparatorio-esecutiva e hanno un livello di vertice che quasi tocca quello politico. Espinoza era il numero due della DINA di Pinochet, colui che aveva sotto il suo comando tutti i centri di tortura da Punta Arenas ad Arica in Cile. I Giudici hanno assolto tutti questi imputati. Tutti gli assolti uruguaiani sono su questo piano, l’unico condannato fa riferimento alla parte ideativo-preparatoria, il ministro degli esteri uruguaiano Carlos Blanco. Se l’ideazione è servita a questo, verrebbe da dire, il braccio operativo è esistito anche nelle operazioni estere con una sezione estera. La DINA aveva ad esempio una sede estera per il Brasile. All’interno di Villa Grimaldi l’imputato Moren Brito era in contatto telefonico nel 1975 con Espinoza Bravo per le operazioni che la DINA faceva contro cileni in Brasile ed in altri Stati esteri. Stesso dicasi per tutti i rapporti bilaterali.

I risultati del processo

Il processo di Roma ha ritenuto provata la responsabilità degli ideatori del Plan Condor come vertici politici delle dittature, in quanto per costoro c’erano prove documentali uscite dall’archivio del terrore in Paraguay, da alcuni archivi militari nazionali, da alcuni documenti nord-americani, da altri archivi sull’esistenza di piani repressivi nei confronti di movimenti politici a cui le vittime appartenevano. Per gli assolti si prende atto che sono collocati nella fase esecutiva, ancorché di vertice, e che i Giudici hanno ritenuto di assolverli tutti in quanto insufficiente, o mancante la prova. Su questa parte bisognerà aspettare la motivazione della sentenza e appellare riprendendo tutte le fonti di prova che consentono comunque di ritenere provato il concorso di persone nel reato e vedere se sia possibile implementare la prova con ulteriori documenti provenienti magari dal mondo militare. Il processo tuttavia ha evidenziato responsabilità individuali di livello altissimo e ha provato, ed è l’elemento più importante in chiave storico-politica, in termini giudiziari, l’esistenza del Plan Condor. Il Plan Condor è stato concepito formalmente dal generale Manuel Contreras nel ’75, formalizzato nella riunione interamericana dei servizi d’intelligence da Contreras nel settembre di quell’anno, ma ha avuto un’applicazione di fatto retrodatabile al ‘72-‘73. Un caso concreto è quello dell’omicidio di Daniel Banfi, assassinato in Argentina vicino Bunos Aires nell’ottobre del ’74. L’operazione fu gestita dalla polizia uruguaiana dove c’era la dittatura e da quella argentina dove ancora il regime militare non c’era. Quindi esisteva già una collaborazione.

Alcune vittime del Plan Condor continuarono a essere colpite ad anni ’80 inoltrati. Le prove del suo funzionamento esistono tuttavia fino all’87-88. In Cile fino alla caduta del regime. C’è la piena consapevolezza di governi occidentali e di quello nord-americano che il piano esisteva.

La protesta contro la legge sull’impunità a Montevideo

Quindi lei è d’accordo con le parole di Morales, quando sostiene che gli USA dovrebbero essere i principali imputati

Se valuto l’affermazione sul piano storico-politico dico di sì, sul piano giuridico dico di no in termini di concorso di persone nel reato, perché non risulta che gli USA abbiano pianificato le operazioni. Sicuramente hanno concorso in modo efficace a creare tutti i presupposti per cui quelle dittature esistessero e operassero come hanno operato. Un ruolo di supervisione. Mi viene alla mente la singolare figura dell’agente della DINA ma nordamericano, Michael Townley, complice nell’azione che a Washington costò la vita a Orlando Letelier e alla sua assistente Ronnie Moffit e nel tentato omicidio a Roma di Bernardo Leighton. Townley fu anche agente della CIA, ma la sua funzione ci parla di un probabile conflitto di strategie anche all’interno dell’intelligence statunitense dell’epoca. Questo tipo di operazioni – come in questo caso – non le facevano fare ad agenti americani. Una volta che uscivano dal territorio nazionale, prendevano un’altra cittadinanza e loro non volevano più saperne niente. Non esiste documentazione su questo. È buona regola per ogni servizio di sicurezza non lasciare traccia per cui non mi aspetterò mai di trovare prove su questo perché quel che c’era è stato sicuramente manipolato e/o distrutto.

Una verità affidata alla memoria

La parola ‘memoria’ e la sua pratica sono punti di partenza fondamentali per una comunità che non vuole che determinati fatti si possano ripetere. Io tuttavia continuo a pensare che il principio di realtà governi le cose e quando mi sento dire che “è già importante farli i processi” e farli “per la memoria” non mi trovo d’accordo. Sarebbe importante vincerli e dare seguito alle sentenze. I processi penali non sono strumenti di memoria, ma di una giustizia possibile, governata dalle regole del c.d. ‘giusto processo’. Certo che un effetto indiretto è quello della memoria come nel caso dello studio delle testimonianze dopo 50-60 anni dei crimini nazisti. Sul piano meta-processuale, il prisma produce mille luci, tutte importanti e interessanti, ma l’esperienza di cui parliamo si chiama processo penale. È chiaro che un processo dopo 40 anni mette in gioco il tema della memoria del fatto, ma è e resta un processo penale. Altro tema è quello della grande distanza dai fatti. Questa distanza ha risentito di modelli diversificati di giustizia di transizione in America Latina. In Italia del resto abbiamo conosciuto analoghe questioni all’indomani della caduta del Regime fascista: pochi sono stati i processi, ricchi di contraddizioni e molte furono le leggi di amnistia nel dopoguerra. In Italia abbiamo inoltre assistito alla celebrazione di ben 18 processi per crimini nazifascisti a 60-70 anni di distanza dai fatti. Questo fenomeno di distanza temporale è già il frutto di una preventiva patologia sistemica, di una politica che non ha voluto che i processi si facessero in un tempo ragionevole. Tutti i crimini politici paiono del resto risentire sempre della “tardività” del processo penale perché le giustizie di transizione sono tutte minate dalle prove complesse, dalla morte degli imputati, dalla politica che non consente, attraverso fenomeni di condizionamento, la celebrazione dei processi e da percorsi legislativi tormentati. Si pensi alle leggi di Punto Finale e Obbedienza Dovuta in Argentina.

Riguardo al lato umano: le storie che l’hanno più colpita

In realtà ce ne sono tante perché il grado emotivo di queste storie ha un lato umano che viene cancellato. In termini biografici, una figura che mi colpisce, forse perché ho delle passioni in comune con lui, è quella di Juan Bosco Maino Canales. Siamo nel ’76. È una storia che meriterebbe un racconto a parte perché Maino è una persona che militava in un gruppo di ispirazione marxista-cattolico ed aveva la passione per la fotografia che si tradusse in lavori sulla povertà in Cile. Entrò in clandestinità con questo ruolo di responsabilità della sicurezza del MAPU, il suo partito, e di lui colpisce questo sguardo fotografico sul mondo che dice più di ogni altra cosa, del perché di questa scelta. Inoltre emerge il tema della piena consapevolezza della propria fine. Mentre per altri è solo immaginabile, nel suo caso Maino lasciò una lettera alla fidanzata per la madre con indicazioni su cosa fase nel caso in cui fosse arrivata una telefonata che diceva “lo hanno ricoverato”. Lui lo sapeva già poco prima del rapimento. È un partigiano resistente cileno non diverso da un gappista italiano del ‘45. È un qualcosa che mi ha colpito molto ma anche per l’esperienza diretta perché sono stato a Santiago e ho conosciuto i suoi parenti e i suoi amici, sono stato a Villa Grimaldi, dove lo hanno tenuto ed emergeva la passione per la fotografia, il cinema. Maino girava per Santiago con una Citroen sopra cui piazzava un proiettore e andava con altri militanti a mostrare i film di Fellini nel ’72-‘74 alle poblaciones cilene. La scoperta delle fotografie alla morte della madre è altrettanto interessante perché molti dei negativi non sono stati sviluppati fino a due anni fa e hanno visto la stampa durante il tempo del processo. Il suo sguardo si scopre dunque durante il processo. Inoltre, la prima esperienza che ho fatto nel processo Condor riguardava questo manifesto a grandezza naturale di Juan Maino che venne affisso nel ‘77 a Santiago. Era un manifesto originale molto deteriorato che mi è stato aperto sul tavolo, come se fosse il corpo durante un’autopsia. È una storia che ne ha avute tante connesse a grappolo.

Fotografia di Juan Maino

Altra forza simbolica l’ho trovata per l’azione giudiziaria della sorella, Margherita, quando ha tirato fuori l’orologio di fronte al giudice. Quell’orologio appartenne prima del padre e poi al fratello e Margarita lo tiene sempre in borsa perché è stato a contatto con la pelle del fratello. Dietro a tale immagine c’è l’idea del tempo fermo. Il desaparecido con la sua scomparsa ferma il tempo dell’elaborazione del lutto e leggo simbolicamente quell’orologio come il tempo fermo in attesa della verità sul corpo. Esiste una foto bellissima di lei che mostra l’orologio al giudice riassumendo la condizione dei familiari dei desaparecidos, il tempo immobile della giustizia. E dentro tutto questo c’è la storia di Juan Maino.

Colpisce anche la storia di Maria Victoria Artigas. Lei è nata nel centro di detenzione di Pozo de Banfield con la madre legata alle mani che non l’ha mai potuta abbracciare ed è stata ritrovata nell’87. È una militante di sinistra molto impegnata nel sindacato con una grande storia di militanza che ricalca il ricordo della madre. In un certo senso, la fa rivivere attraverso l’azione politica.

La storia di Juan Montiglio è quella della fedeltà a un progetto e di un coraggio resistenziale. Tante di queste storie sul piano militare sono perse in partenza. La battaglia militare in Cile è compiuta da un manipolo di 30 persone che resiste per 9 ore prima di arrendersi. Lui muore dopo tre giorni di tortura gridando la sua fedeltà ad Allende e viene prima mitragliato da Herrera Lopez e poi disintegrato dalle bombe.

Quanto ci riguarda il Plan Condor

Tutto questo servì a una strategia economica di tipo neo-liberista che ha delle declinazioni in Cile, delle altre in Argentina e altre ancora in Europa Occidentale e che porta oggi alla necessità della memoria di tutto questo. Quello che non mi convince da osservatore esterno è che la memoria possa sostituire una verità politica su questi fatti. Allora la memoria è importante per la sua narrazione pubblica ma bisogna stare attenti a non farla diventare un esercizio retorico con parole che ripetiamo come i tic e ci fanno perdere di vista quello che ha detto il presidente Evo Morales. Lui l’ha detto con una frase che è evidentemente una provocazione, ma questi golpes sono serviti in Cile alla scuola economica dei c.d. Chicago boys per imporre un modello neoliberista che ha annientato il programma di Salvador Allende, ha impiantato nuovi modelli economici e dunque di vita. Tutti i cittadini sudamericani stanno vivendo lo stesso prodotto in situazioni diverse. In Italia abbiamo avuto la stagione dello stragismo. Per cui con l’operazione Condor parliamo di cose molto più vicine a noi di quanto non possano apparire, non facciamo storiografia, non facciamo operazioni di memoria ma tentiamo di fare giustizia tardiva su operazioni sovranazionali che sono arrivate anche a Roma come con l’attentato a Bernardo Leighton.

Alessandro Leone

Scritto da Alessandro Leone in 02/07/2017 / 180 Views
Tags | Plan Condor, Processo Condor, Speranzoni

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